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Ci sono persone e persone: c'è chi è indifferente ai problemi degli altri, illudendosi che non lo riguardino; c'è chi addirittura causa o sfrutta questi problemi e, per fortuna, esistono anche molti che si preoccupano di risolverli o, almeno, ci provano. Da qui nasce una riflessione: poichè non si può pensare al "sè" scollegato dall'"altro da sè", cosa può fare ciascuno di noi per migliorare le cose per se stesso e per gli altri?
Ciò che, sicuramente, non serve, è aspettarsi che il “cambiamento” arrivi dall’alto o dagli altri: ciascuno può fare la differenza nel quotidiano, ma se tutti pensassimo che soltanto grandi opere o gesti possano determinare grandi cambiamenti, allora nulla accadrebbe mai e, soprattutto, saremmo semplici burattini o spettatori delle nostre vite, anziché protagonisti.
La cosa più semplice (e inutile) da fare è criticare gli altri senza osare mettere in discussione se stessi e senza attivarsi in prima persona.

 

1. La ricerca dell’evoluzione

La cultura e perfino il diritto occidentale stanno permeandosi sempre più del principio di  diritto dell’individuo al perseguimento della felicità, salvo – ovviamente – che ciò interferisca con diritti altrui.
Quello di felicità non è un concetto univoco: non si può, per esempio, affermare che vi sia uno status, raggiunto il quale tutti siano felici, né che esista un metodo preciso per conquistare la felicità.
La filosofia si interpella da sempre su cosa si debba intendere per “felicità”, fornendo le risposte più disparate: si va dal mero appagamento dei sensi e/o delle esigenze biologiche, alle più profonde istanze dell’anima. Secondo alcuni è sufficiente non provare dolore per essere felici, mentre per altri la felicità è semplicemente impossibile, o si manifesta in effimeri istanti.
Uno dei principi fondanti l’Eusebismo è l’equilibrio: se è vero che la felicità di uno può realizzarsi perfino attraverso l’infelicità e il male dell’altro, non si può invece realizzare alcun equilibrio a partire da simili presupposti, poiché esso presuppone il contemperamento di tutti gli interessi coinvolti.
L’equilibrio non riguarda soltanto i nostri rapporti con gli altri, bensì anche quelli con noi stessi: ambire a questo risultato può considerarsi un’evoluzione oggettiva, in grado di offrire a ciascuno quel benessere che nella “felicità” potrebbe essere soltanto illusorio ed effimero.
Una società individualista, che non comprende l’interconnessione tra i singoli elementi che la compongono (umani e non), può ritenere soddisfacente il perseguimento della felicità, ma l’affermazione di un simile diritto può risultare contraddittoria o, addirittura, impossibile: l’unico, vero, diritto assoluto che può e deve essere affermato è quello all’evoluzione, da intendersi quale perseguimento dell’equilibrio.
L’eusebista promuove il cambiamento a partire da se stesso e lo finalizza al raggiungimento dell’equilibrio con se stesso e con tutto ciò che lo circonda, nulla escluso.

 

2. Rapporti con gli animali umani (il paradosso dell’egoismo)

C’è un dialogo nel film “Mission to Mars” di B. De Palma, nel quale si fa riferimento al fatto che tra il DNA degli umani e quello degli scimpanzè c’è soltanto il 3% di differenza, ma, osserva una: “Quel 3% ci dà gli Einstein, i Mozart…”, al che l’altro la incalza: “Jack lo squartatore…”.
La complessità dei rapporti tra umani è tale che sarebbe impossibile stabilire un codice di condotta esaustivo, ma se – invece – ricercassimo dei principi assoluti, non sarebbe poi così difficile individuarli: non tutti possiamo essere degli Einstein, ma tutti possiamo evitare di diventare dei Jack lo squartatore!
Se vedere nell’altro un’opportunità di crescita e confronto, oppure uno strumento da sfruttare, sta soltanto a noi: siamo tuttavia abituati a ritenere un dovere morale quello di aiutare, anche oltre il lecito, i più prossimi, mentre consideriamo superfluo o addirittura sbagliato fare lo stesso con chi è più lontano.
Quotidianamente facciamo scelte che riteniamo utili per conquistare la nostra felicità, ma spesso a scapito altrui: dallo scavalcare una persona in fila, al non rispondere a una richiesta di aiuto che ci costa sacrificio, al barare per superare un esame o approfittarci dei problemi del vicino per prevaricarlo.
Ma non c’è vittoria nel danneggiare l’altro e non c’è alcun merito nel privilegiare se stessi o i propri cari a tutto il resto del mondo: si tratta soltanto di una forma di egoismo come un’altra, poiché – in quel caso – non ci stiamo realmente adoperando in maniera disinteressata, ma stiamo semplicemente assecondando i nostri sentimenti verso qualcuno, per ricavare una gioia egoistica (gioisco per il conseguimento di una persona alla quale tengo), anziché una altruistica (gioisco poiché ho aiutato qualcun altro, anche a costo di un mio sacrificio, senza danneggiare nessuno).
Insomma, è facile essere buoni con chi è buono verso di noi, ma la vera sfida consiste nell’aiutare con disinteresse e perché è giusto farlo e non, invece, poichè traiamo un piacere o un beneficio indiretto.
Rispettare l’altro significa viverlo come un fine anziché come un mezzo, nonché riconoscerne l’unicità, l’autodeterminazione e offrirgli esattamente ciò di cui ha bisogno: mai, comunque, imporgli ciò che noi abbiamo deciso essere “giusto”.
Il prodotto di un modo di agire quale quello propugnato dall’Eusebismo, improntato al rispetto, è un circolo virtuoso: a differenza del circolo vizioso determinato dall’egoismo, in questo caso nessuno è solo nel tentativo di adoperarsi per il proprio benessere, ma ciascuna delle persone con le quali entra in contatto se ne occupa e se ne fa carico.
Non occorrono complessi calcoli matematici per concludere che, nel rapporto “uno-egoista” contro “tutti-altruisti”, il benessere ottenibile nel secondo caso (circolo virtuoso eusebista) è infinitamente superiore.
Insomma, si può affermare che – paradossalmente – la persona più egoista del mondo dovrebbe essere anche la più altruista, proprio in considerazione del fatto che i benefici ottenibili essendo l’unico ad adoperarsi per essi non sono paragonabili con quelli che egli potrebbe conseguire se – invece – tutti vi si adoperassero.

 

3. Rapporti con gli animali non umani

Nella scala di complessità dei rapporti quello tra animali umani e non umani viene immediatamente dopo, non foss’altro che la quantità di legami e relazioni che si instaura tra simili è necessariamente maggiore ed, altresì, che qualunque persona è obbligata a relazionarsi con le altre, mentre non è obbligata a farlo con individui di altre specie.
Per gli animali non umani vale la maggior parte delle considerazioni di cui al precedente paragrafo, salve le debite distinzioni: in una società di uomini ognuno di essi può decidere se accettarne i precetti o metterli in discussione e può provocarne anche il cambiamento, mentre gli esponenti delle altre specie sono semplicemente costretti a subire il trattamento loro imposto.
Poiché ciascun animale (umano o non) ha proprie specificità, modi di sentire, provare gioia, sofferenza, ansia, fame, dolore, desiderio e una miriade di altre sensazioni, è imperativo morale astenersi dal porre in essere (o partecipare a) comportamenti che hanno per effetto la produzione di conseguenze dannose in base ad uno qualsiasi di tali parametri.
Non si può subordinare l’applicazione di un imperativo morale a considerazioni quali l’utilità o la piacevolezza che l’aguzzino potrebbe ricavare dalla sua vittima, ad esempio torturandola o uccidendola per divertirsi o per l’appagamento del gusto.
Quotidianamente ciascuno di noi può scegliere se acquistare prodotti che finanziano chi pratica esperimenti su animali o meno (questi ultimi sfruttano soltanto le sostanze testate in passato in quanto per legge obbligatorio, ma non finanziano ulteriori sperimentazioni animali), se vestire con pelle, cuoio, seta, perle e altri materiali ottenuti attraverso lo sfruttamento e l’uccisione di animali non umani; soprattutto, ciascuno di noi può scegliere se nutrirsi di carne, uova, latte e derivati o meno.
Ma anche convivere con un animale non umano, se fatto per egoismo, è moralmente deprecabile: comprarlo, in particolare, alimenta un mercato fondato sull’inammissibile idea che si possa disporne soltanto poiché questi non ha facoltà di opporsi.
In un mondo che oggi è soltanto utopia animale umano e non potrebbero “scegliersi” a vicenda ed, eventualmente, decidere se convivere o restare semplici vicini, coabitanti dello stesso pianeta.
Nel mondo odierno tutti quelli che ne hanno facoltà dovrebbero attivarsi per limitare e rimediare gli incalcolabili danni che l’uomo sta cagionando a tutte le specie animali: accudire e curare quelli che sono in difficoltà, specie se costretti a vivere ambienti artificiali quali le città che rendono loro impossibile provvedere a se stessi e li espongono a pericoli e minacce cui la natura non li ha preparati.
Una cosa è certa: se anche non dovessimo attivarci in prima persona facendo volontariato – o anche soltanto aiutando chi troviamo sul nostro cammino – non possiamo astenerci dal dovere di rispettare il diritto alla vita e a non soffrire dei non umani. Il vegetarismo, in termini morali, non rappresenta una facoltà supplementare per chi intenda essere animalista, bensì un preciso dovere che accomuna tutti e un modo di agire minimo per garantire giustizia: al di sotto di tale soglia può esserci soltanto arbitrio, egoismo e indifferenza.
Non si può essere animalisti senza essere vegetariani, ma non si può neppure pensare che l’esser vegetariani rappresenti una mera opzione, magari a corollario di un percorso animalista.
Rispetta ogni animale non umano per quello che è, non per quello che tu vorresti che fosse, e non usarlo per ciò che può darti, ma chiediti cosa puoi dargli tu: astieniti da qualsiasi interferenza con la sua natura e con il suo essere, salvo adoperarti per ristabilire l’equilibrio e rimediare ai danni provocati da altre interferenze. Questi, in sintesi, i precetti dell’Eusebismo nel rapporto tra animali umani e non umani.

 

4. Rapporti con tutto ciò che è altro da sè

Come si può garantire di non ripetere gli sbagli del passato e, quindi, di non limitarsi ad estendere una tutela che si rivendica per sé ad altre categorie, più o meno prossime a quella dell’osservatore? Rispettare tutto, indiscriminatamente, è l’unico modo certo per riuscirci.

Occorre calcolare che esistono anche insetti, vegetali e perfino oggetti “inanimati” che compongono e popolano il nostro stesso mondo e ai quali dobbiamo la nostra esistenza: quotidianamente possiamo scegliere di non inquinare (o di inquinare meno), di non interferire con le piante che ci circondano, di non sradicarle o tagliarle a nostro piacimento, ma di lasciarle esistere in quanto fini a se stesse, anziché per l’utilità che può derivarcene.
Anche il semplice gesto di rovesciare una pietra può distruggere un microcosmo, come per esempio un formicaio o la tana e l’incubatrice di insetti, così come recidere un fiore solo per assaporarne l’essenza o l’esteriorità sono atti dai quali dobbiamo astenerci: lo spettacolo dell’esistenza di ciò che ci circonda non si può possedere, ma soltanto ammirare.
L’illusione effimera di possedere ciò che esiste intorno a noi ne provoca soltanto la distruzione e la sottrazione al godimento cui tutti gli altri hanno pari diritto rispetto a noi.

Possiamo, per esempio, tagliare l’erba del nostro giardino per conformarlo alla nostra piacevolezza o al luogo comune che determina quale aspetto un “giardino” debba avere: in questo modo, però, sviliamo la natura e limitiamo, uccidiamo e devastiamo le forme di vita che in essa potrebbero trovare accoglienza, riparo e sostentamento; oppure, al contrario, possiamo lasciare a questo spiraglio di natura il diritto a esistere, sia pur nella convivenza forzata con la nostra invadente presenza cementizia.

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